"Lo Zufolo - 'U Friscalettu"

Un volume di Gemino Calà

Strumento musicale pastorale siciliano per eccellenza, il flauto di canna diritto semplice a bocca zeppata costituisce un'eredità organologica plurimillenaria, giunta miracolosamente fini a noi grazie ad un "sapere" trasmesso per vie agro-pastorali da padre in figlio. Appartenente alla famiglia più ampia degli aerofoni variamente connotati tipologicamente (ance e calami, semplici e doppi) diffuse già in tutte le culture antiche del bacino del mediterraneo, il flauto di canna, assieme a quelli realizzati in osso o in legno, assolveva a diverse funzioni rituali e cerimoniali sia in area urbana sia rurale.

Piuttosto arduo appara tuttavia il tentetivo di esaustiva ricostruzione storica della prassi esecutiva e delle occasioni d'uso riservate al flauto sopratutto a causa della frammentarietà e genericità delle indicazioni che emergono dalle più lontane fonti iconografiche, letterarie e mitologiche. Tra i titoli classici più rilevanti da annotare gli idilli pastorali di Teocrito -originario di Siracusa vissuto nella prima metà del III secolo a.C.- che, oltre a dare per la prima volta dignità poetica ai contesti di vista pastorale, facendo così la fortuna del genere bucolico, attestato come segno distintivo dell'umile condizione di vita agreste l'uso di strumenti a fiato, quali flauti e zampogne. Giugendo di slancio nella stagione culturale che riaccende l'interesse per l'aurea epoca classica, di grande suggestione risultano le trasposizioni pittoriche tra Cinque e Seicento di episodi mitologici di carattere musicale. Dall'ampio catalogo disponibile ci pare opportuno segnalare la ricorrenza figurative del flauto a becco, appunto del flauto diritto o "dolce", come dir si voglia, che nella rappresentazione mitologica coniuga ai profili organologici spesso accurati, perchè colti probabilmente dall'osservazione diretta, forti coloriture simboliche. Lasciando alle spalle lo sfondo culturale di lungo periodo che accompagna la lunga e complessa vicenda storica-organologica di questo remoto aerofono pastorale, guadagnamo ora rapidamente il terreno demologico siciliano di fine ottocento, per riportare alcune "cronache d'epoca" che attestano a un tempo la diffusa prassi esecutiva riservata al flauto di canna negli ambiti agro-pastorali isolani e la sua sostanziale stabilità organologica rispetto alle tipologie più arcaiche.

"Due suonatori, l'uno costantemente col contrabasso e l'altro con lo zufolo o col violino- annota Salomone Marino_ in un comune: e questi, la domenica, si piazzano in una piazza, dove, non appena hanno dato l'aria a due note, veggonsi circondati da una folla di giovini villici che vogliono far prova dell'abilità(...) Quei musici vidanno un pezzo (caddozzu) di fasola, o di tarantella, a vostra scelta(...), tutte musiche e balli popolari un tempo accompagnati eziandio al canto, i quali à dì nostri però vanno cedendo in luogo alla polka e alla quadriglia e ad altri balli d'arte che i campagnoli s'industriano d'imitare". Tra "conservazione e innovazione", dunque il faluto di canna riveste un ruolo primario nei contesti festivi di tradizione, veicolando anche le "novità" musicali costituite dalla triade del liscio (polka, valzer, mazurka) che alla fine relega in spazi sempre più ristretti i balli della tradizione.

A fronte tuttavia di un'ampia e docomentata letteratura demologica, dovuta sopratutto a Giusepppe Pitrè e ai suoi seguaci, che consente di specificare i compiti musicali svolti dal flauto diritto e le sue "mutazioni" funzionali ai nuovi bisogni socio-culturali, davvero carenti sono le informazioni che ci giungono sui caratteri organologici, sull'impianto musicale e sulle modalità di costruzione dello strumento pastorale siciliano. Per avere un primo contributo di conoscenza di carattere "tecnico-musicale" sul frautu, friscalettu, o faraùtu, -queste le denominazioni etimologiche dialettali dello strumento- bisogna aspettare fino al 1957, quando Ottavio Tiby descrive le fasi standarddi costruzione di un flauto di canna, per poi riferire, grazie al friscalittaru Filippo Tusa da Gibellina, una serie di ragguaglisul friscalettu alla partannisa, ovvero quello con sei fori digitali anteriori e uno posteriore. Il rinnovato interesse di ricerca e di studio nei confronti degli strumenti musicali popolari siciliani che si registra a partire dall'ultimo ventennio del Novecento ha consentito poi di aggiungere ulteriori specifiche informazioni sul flauto di canna.

Tra le altre annotiamo quelle di Roberto Leydi, che conduce, fra l'altro, una prima ricognizione sugli esemplari di flauto a becco, di canna, a bocca zeppata conservati nel museo Pitrè a Palermo, configurando una prima, sebbene provvisoria, campionatura organologica rubricando strumenti a 3, 4, 5, 6, 7, 8, 9 fori. I successivi e numerosi rilevamenti sonori sul campo e le testimonianze fornite da costruttori e suonatori, che giungono fino ai nostri giorni, oltre a delineare sommariamente una residua, sebbene significativa,vitalità dello strumento, in gran parte però decontestualizzato, e funzionale sopratutto in chiave virtuosistica all'interno dei gruppi folkloristici, hanno consentito di disegnare una prima mappa di distribuzione areale dello strumento, in riferimento anche alla tipologia, allo stile esecutivo e al sapere costruttivo.

La cospiqua e originale opera di Gemino Calà si colloca, dunque, all'interno di un quadro di ricerche e studi sul flauto siciliano, in verità piuttosto esiguo, sebbene sufficiente a delineare i tratti etno-organologici principali, introducendo elementi di novità non secondari, anzi piuttosto rilevanti.

Mario Sarica
Pagina tre, Gazzetta del Sud 28 Agosto 2001.